INFEDELTA AZIENDALE- DIPENDENTI -SOCI-COSTI-PREZZI-PREVENIVI-TARIFFARIO AUTORIZZATO DALLA Infedeltà Aziendale-concorrenza sleale-Fuga Notizie- investigazioni aziendale-Ammanchi
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Infedeltà Aziendale;Investigazioni Aziendali;Agenzia Idfox Leader Since 1991

Infedeltà Aziendale;Investigazioni Aziendali;Agenzia  Idfox  Leader  Since 1991 - INFEDELTA AZIENDALE- DIPENDENTI -SOCI-COSTI-PREZZI-PREVENIVI-TARIFFARIO AUTORIZZATO DALLA

 

Quanto costa un investigatore privato a Milano? Come è facile intuire, gli investigatori privati a Milano hanno tariffe e prezzi variabili che si basano  sulla complessità delle indagini da svolgere. In linea di massima le investigazioni in ambito Privato-Aziendali  e famigliari  sono tra le più richieste ed i costi orari partono da un minimo di 40 euro ad un massimo di 80 euro per agente operativo.  A livello di tariffe, per un servizio efficace non si può scendere al di sotto di un minimo di 500 euro al giorno. I detective privati specializzati generalmente propongono tariffe giornaliere tra 500 e 1.000 euro.Infedelta' Aziendale-Dpendente infedel-ammanchi contabili-assenteismo dipendente-concorrenza sleale-antispionaggio aziendale-cyber security-investuigazioni frode aziendali-competitors. L’agenzia investigativa IDFOX Investigazioni è un’agenzia storica, operativa dal 1991, in Milano, tutto il territorio Italiano ed Estero. Siamo specializzati nella problematica aziendale. Grazie alle investigazioni aziendali  dell’agenzia IDFOX Investigazioni potete prendere decisioni “SICURE” che Vi consentiranno di decidere, valutare e tutelare al meglio le Vostre attività ed i Vostri interessi sia aziendali che privati.

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Il controllo del dipendente tramite investigatore

Licenziamenti: attenzione all’uso di investigatori esterni per controlli aziendali. La Cassazione stabilisce limiti sull’uso di detective.  

Si può ricorrere a investigatori esterni per sorvegliare i propri dipendenti? E in caso positivo, in che modo? Queste sono domande cruciali nel mondo del lavoro, in particolare per le grandi aziende che talvolta sentono la necessità di tenere sotto controllo l’operato dei propri dipendenti per evitare che questi compiano, al di fuori dell’orario lavorativo, condotte infedeli (si pensi ad una falsa malattia, ad una attività di lavoro parallela e in concorrenza con il datore, ecc.). Andiamo a vedere cosa ha detto di recente la Cassazione sul controllo del dipendente tramite investigatore. Ma procediamo con ordine.

Indice

* Quando è possibile controllare i dipendenti

* Come funziona il controllo degli investigatori privati

* Quando è possibile controllare un dipendente

* Cosa dice la Cassazione riguardo l’uso di investigatori esterni?

Quando è possibile controllare i dipendenti

L’impiego di investigatori privati è giustificato quando sorgono sospetti riguardo al comportamento di un dipendente all’esterno dell’azienda. Secondo la giurisprudenza, il datore di lavoro ha il diritto di supervisionare direttamente le attività dei suoi dipendenti. Tuttavia:

* se il controllo avviene in azienda (quindi durante l’orario di lavoro), esso può essere effettuato solo con personale interno di vigilanza (art. 3 dello Statuto dei lavoratori). Il datore di lavoro è obbligato a comunicare ai lavoratori interessati i nominativi e le mansioni specifiche del personale specificamente addetto alla vigilanza sull’attività lavorativa e sul comportamento del lavoratore di cui si avvale. Il mancato rispetto dell’obbligo determina l’inutilizzabilità delle segnalazioni ai fini dell’applicazione di sanzioni disciplinari;

* se il controllo avviene fuori dall’azienda (quindi al termine dello svolgimento delle mansioni), esso può essere effettuato da soggetti esterni all’azienda stessa: si tratta cioè di agenzie investigative private. Anche in questo caso, il dipendente ha diritto a conoscere i nomi dei detective che lo hanno pedinato.

Come funziona il controllo degli investigatori privati

Il controllo degli investigatori privati può anche essere occulto. Diversamente risulterebbe del tutto inutile.

Non si tratta quindi di un controllo su un mero inadempimento della prestazione lavorativa, ma su condotte che incidono sul patrimonio aziendale quale l’immagine (si pensi a un lavoratore che discredita il datore) o l’organizzazione (si pensi a un lavoratore che si dà malato pur non essendolo).

Le agenzie investigative possono essere impiegate non solo quando si sospetta o si ha la certezza di attività illecite già commesse, ma anche in presenza di sospetti o ipotesi di comportamenti illeciti in corso.

Secondo le “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria pubblicate” (pubblicate dal Garante privacy: “L’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”. Il mancato rispetto di tale regola rende inutilizzabili le indagini eseguite dall’agente stesso.

I codice deontologici degli investigatori privati sono contenuti nel d.lgs. n 196/2003.

Quando è possibile controllare un dipendente

Di seguito sono riportati alcuni esempi di situazioni in cui l’uso di investigatori privati è stato ritenuto legittimo:

* addetti alle casse in supermercati e negozi: gli investigatori possono agire come clienti normali per verificare possibili casi di appropriazione indebita di denaro;

* casellante in autostrada: i detective privati possono eseguire passaggi al casello per accertare che il casellante stia fornendo il resto corretto, evitando di trattenere illegittimamente denaro;

* direttore di supermercato: gli investigatori possono agire come clienti per scoprire comportamenti come il recupero di scontrini usati o la sottrazione di merci dagli scaffali;

* funzionario di un istituto di credito, incaricato di attività promozionale esterna: gli investigatori possono osservare le attività svolte al di fuori dell’azienda per verificare se si stia svolgendo un’altra attività durante l’orario di lavoro;

* lavoratore in malattia: gli investigatori possono monitorare il comportamento quotidiano del lavoratore durante la malattia, quando sussistono sospetti di falsa malattia o inadeguatezza a svolgere il lavoro;

* dipendente di un’impresa assicurativa: gli investigatori possono pedinare un lavoratore  al fine di accertare la sua presenza o assenza dal lavoro.

 

In tutti questi casi, è importante notare che l’uso degli investigatori privati deve essere in linea con le leggi e le normative vigenti e deve essere finalizzato a proteggere gli interessi legittimi dell’azienda.

Cosa dice la Cassazione riguardo l’uso di investigatori esterni?

Il caso preso in esame dalla Cassazione sentenza n. 28378/2023, ruota intorno a un dipendente di Telecom Italia e alle modalità con cui la società ha monitorato le sue attività lavorative. La Telco, sospettando che il dipendente avesse un secondo lavoro e gonfiasse il numero di ore lavorate, ha commissionato un pedinamento. Ma qui sorge il problema: gli investigatori utilizzati non erano direttamente legati alla società incaricata da Telecom, bensì a una terza società. La Cassazione, con la sentenza n. 28378, ha bocciato questo tipo di “sub appalto”, poiché viola il diritto alla privacy del dipendente e le norme deontologiche previste.

 

 

La Cassazione sottolinea che se i dati vengono raccolti in modo non rispettoso delle regole, questi non possono essere utilizzati né come prova in un procedimento disciplinare né in sede giudiziaria. L’obiettivo delle normative è scoraggiare l’acquisizione “abusiva” di dati personali. Se tali dati vengono utilizzati, l’intero procedimento disciplinare potrebbe essere invalidato.

In sintesi, la Cassazione ha ribadito che:

* i codici deontologici hanno forza normativa e possono essere applicati d’ufficio dal giudice;

* se violati, i dati raccolti sono inutilizzabili;

* tale inutilizzabilità è “assoluta” e vale sia in sede processuale che extraprocessuale;

* se i dati sono raccolti in violazione delle norme, né il datore di lavoro né il giudice possono utilizzarli come base per decisioni o prove.

Il datore di lavoro può far pedinare i dipendenti dai detective di un’agenzia investigativa per vedere dove vanno e cosa fanno durante le ore di permesso?  SI, SI. SI!!!!!

Molti datori di lavoro sospettano che i propri dipendenti abusino della fiducia loro concessa, specialmente quando sono in malattia oppure usufruiscono di vari tipi di permessi, orari o giornalieri: da quelli concessi ai sensi della legge 104 per assistere un familiare disabile a quelli spettanti ai rappresentanti sindacali. Così alcune aziende fanno pedinare i lavoratori da un investigatore privato per vedere dove vanno e cosa fanno durante le ore di malattia o di permesso.

Talvolta, il detective scopre che qualcuno approfitta delle “ore libere” come se fossero una pausa ricreativa, o magari le usa per dedicarsi ad attività che non hanno nulla a che vedere con le finalità per cui erano state messe a disposizione, ed anche retribuite. In questi casi, c’è una violazione del patto di fedeltà che lega il dipendente al datore, e anche un danno economico per quest’ultimo: così la sanzione disciplinare è severa e può arrivare fino al licenziamento in tronco. Ma si può licenziare un lavoratore con le prove dell’investigatore privato? Che valore hanno le sue dichiarazioni, le foto che ha scattato, i documenti che ha raccolto, le informazioni che ha acquisito? Il lavoratore licenziato può contestare tutto ciò? Vediamo.

Indice

* 1 Quando si può far pedinare un lavoratore dall’investigatore privato?

* 2 Cosa può fare l’investigatore privato durante i pedinamenti?

* 3 Che valore hanno le prove raccolte dall’investigatore privato ai fini del licenziamento?

* 4 Approfondimenti

Quando si può far pedinare un lavoratore dall’investigatore privato?

I poteri di vigilanza e di controllo del datore di lavoro sull’operato dei propri dipendenti si estendono anche al di fuori dei luoghi di lavoro e degli orari di servizio. La giurisprudenza ammette da anni che è lecito ricorrere ad agenzie investigative private, non solo quando sono state già raccolte evidenti prove di infedeltà compiute dai dipendenti, ma anche quando c’è un semplice sospetto della loro commissione.

L’importante è che lo “spionaggio” del datore di lavoro non si traduca mai in una verifica sull’espletamento delle prestazioni lavorative: la legge [1] vieta l’impiego di guardie giurate o di altro personale di vigilanza, come gli investigatori privati, nei luoghi di lavoro, tranne che per la tutela del patrimonio aziendale. All’esterno, invece, tutto cambia: il datore di lavoro può far sorvegliare e pedinare i dipendenti da detective di sua fiducia (ma non quando il lavoratore è in missione, perché tale periodo è considerato come svolgimento degli incarichi affidati e, pertanto, è equiparato alle normali prestazioni lavorative interne).

In estrema sintesi, non si può spiare ciò che fanno i dipendenti in azienda, ma fuori sì. Di solito, il pedinamento di un lavoratore dall’investigatore privato viene disposto dal datore di lavoro per controllare se quel dipendente è veramente in malattia oppure se sta utilizzando il permesso per le finalità consentite dalla legge e non per altri scopi che non hanno nulla a che fare con ciò.

Cosa può fare l’investigatore privato durante i pedinamenti?

L’investigatore privato durante i pedinamenti dei lavoratori di cui lo ha incaricato il datore di lavoro, può scattare foto e registrare video, purché ciò avvenga in luoghi pubblici o aperti al pubblico (come bar, negozi, cinema e ristoranti) e non in luoghi di privata dimora. Può anche utilizzare strumenti di rilevamento della posizione di persone e autoveicoli (come il localizzatore satellitare Gps), raccogliere informazioni sui luoghi frequentati dalla persona pedinata e redigere annotazioni e relazioni di servizio (dette anche report investigativi) per documentare la propria attività nei confronti di chi gli ha commissionato l’incarico.

In ogni caso, però, il pedinamento non deve essere mai invasivo della libertà personale e dei luoghi privati o risultare molesto, altrimenti costituirebbe reato, come ha affermato in varie occasioni la Corte di Cassazione [2]. In proposito, leggi “Investigazioni: quando il pedinamento è reato“.

Che valore hanno le prove raccolte dall’investigatore privato ai fini del licenziamento?

Una volta chiarito che l‘investigatore privato può controllare un dipendente, purché ciò avvenga alle condizioni ed entro i limiti che abbiamo detto, resta da vedere che valore hanno le prove raccolte dal detective o dall’agenzia investigativa ai fini del licenziamento intimato al lavoratore infedele. In concreto, potrà trattarsi di prove documentali (ad esempio, le fotografie scattate e le localizzazioni Gps) e di testimonianze rese nella causa di lavoro, instaurata con l’opposizione del lavoratore al licenziamento.

La tematica della prova dell’attività investigativa compiuta da un detective privato incaricato dal datore di lavoro è stata affrontata in una recente ordinanza della Cassazione [3], che ha ritenuto legittimo il licenziamento adottato nei confronti di alcuni lavoratori portuali i quali, durante le ore di permesso sindacale loro concesse, in quanto rappresentanti della sicurezza aziendale, avevano svolto attività incompatibili con tale incarico.

L’investigatore privato aveva reso la sua rituale testimonianza nel processo, confermando, nel contraddittorio con i lavoratori licenziati, tutte le circostanze già elencate nel report investigativo che aveva consegnato alla società datrice di lavoro. La relazione scritta e la deposizione testimoniale hanno documentato per filo e per segno tutti i movimenti compiuti da quei dipendenti mentre fruivano dei permessi. Risultava in modo chiaro che costoro avevano utilizzato quelle ore per fini privati: il detective ha attestato davanti al giudice che andavano al passeggio, al bar, a fare shopping e a sbrigare commissioni. Il tutto si era svolto nell’arco di più di tre mesi consecutivi.

I lavoratori licenziati avevano contestato che gli elementi raccolti e descritti dall’investigatore privato non erano «realmente rappresentativi dell’attività espletata dal lavoratore», ma la doglianza non ha convinto i giudici della Suprema Corte: è vero che nel licenziamento disciplinare – detto anche licenziamento per “giusta causa” – la prova del comportamento scorretto del dipendente grava sul datore di lavoro, ma se egli fornisce elementi positivi in tal senso tocca al lavoratore contestare tale ricostruzione e dimostrare che le ore di permesso erano state fruite per le attività accordate dalla legge e non per altri scopi.

Approfondimenti

* Investigatore privato sul dipendente;

* Licenziamento: posso ricorrere all’investigatore privato?;

 

note

[1] Art. 2 L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

[2] Cass. sent. n. 18117/2014, n. 43439/2010 e n. 5855/2001.

[3] Cass. ord. n. 17287 del 27.05.2022.

 

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Informatica forense e violazione del segreto aziendale: la sentenza del Tribunale di Bologna

 

Visita fiscale, ultime dalla Cassazione

 

Impedimento alla visita fiscale di controllo, carattere della sanzione per assenza alla visita: le ultime dalla Cassazione in materia di visite fiscali

 

 

 

* Impedimento alla visita fiscale di controllo

 

* Assenza visita fiscale, la sanzione non ha carattere disciplinare

 

* Accertamenti infermità per malattia del lavoratore

 

* Assenza ingiustificata dal domicilio: non rileva il dolo

 

* Assenza giustificata alla visita fiscale

 

* Assenza visita fiscale e condotta del lavoratore

 

Impedimento alla visita fiscale di controllo

 

È legittimo il rigetto dell'istanza di rinvio dell'udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza per legittimo impedimento a comparire presentata dal condannato e documentata da un certificato medico, qualora l'indicazione nell'istanza della reperibilità del medesimo in un luogo diverso da quello in cui egli effettivamente si trovi abbia impedito l'esecuzione della visita fiscale di controllo. (Sez. 1, n. 26762 del 16/07/2020, Torres, Rv. 279784).

 

Cassazione, sentenza n. 35715 del 29/09/2021

 

Assenza visita fiscale, la sanzione non ha carattere disciplinare

 

La questione oggetto di giudizio non riguarda una sanzione disciplinare, ovverosia una prestazione imposta a titolo punitivo dal datore di lavoro, ma il regime delle obbligazioni al verificarsi di una malattia, allorquando risulti l'allontanamento del lavoratore negli orari di reperibilità utili allo svolgimento della c.d. visita fiscale. Ciò è reso evidente non solo dal richiamo nel provvedimento della norma di condotta del C.C.N.L. di pertinenza, chiaramente destinata a regolare i comportamenti obbligatori dovuti nell'ambito del rapporto di R. G. n. 22760/2015 lavoro (art. 21, co. 13, del citato CCNL secondo cui «qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall'indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all'amministrazione»), quanto piuttosto dalla norma sulla cui base la P.A. ha agito con atto da essa stessa definito di "gestione" del personale (art. 5, co. 14 d.l. 463/1983 conv. con mod. in L. 638/1983, secondo cui «qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l'intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l'ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo»), da cui si desume come quella prevista sia una mera conseguenza obbligatoria, espressamente regolata dalla legge, destinata ad operare all'interno del rapporto previdenziale e quindi dell'I.N.P.S., quando sia tale ente, come nel lavoro privato, ad erogare il trattamento, oppure nei riguardi del datore di lavoro quando, come è nel pubblico impiego, sia quest'ultimo a corrispondere quanto dovuto, ai sensi di legge (ora art. 71 d.l. 112/2008, conv. con mod. in L. 133/2008) o di contrattazione collettiva.

 

Cassazione, sentenza n. 33180 del 10/112021

 

Accertamenti infermità per malattia del lavoratore

 

In tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all'art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l'assenza (Cass. n. 25162 del 2014; Cass. n. 11697 del 2020; Cass. n. 6236 del 2001). E' insito in tale giurisprudenza, invero, il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento di attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti.

 

Cassazione, sentenza n. 30547 del 28/102021

 

Assenza ingiustificata dal domicilio: non rileva il dolo

 

 

 

L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo — per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del DL. 12 settembre 1983 n. 463 (convertito nella legge n. 638 del 1983) prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia — non coincide necessariamente con la materiale assenza di quest'ultimo dal domicilio nelle fasce orarie predeterminate, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza di tale dovere di diligenza incombe sul lavoratore (v., ex plurimis, Cass. 22 maggio 1999 n. 5000).

 

Né ha rilievo che la mancata visita avvenga senza dolo da parte dell'interessato, perché ciò che è sanzionato è il fatto obiettivo in sé, indipendente dall'intenzione in concreto del lavoratore (Cass. 30 luglio 1993 n. 8484).

 

Cassazione, sentenza n. 4233 del 23.11.2021

 

Assenza giustificata alla visita fiscale

 

Il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall'obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l'allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità, dovendo pur sempre consistere in un'improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità".

 

Cassazione, ordinanza n. 24492 dell'1/10/2019

 

Assenza visita fiscale e condotta del lavoratore

 

L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo - per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modifiche, nella legge 11 novembre 1983 n. 638, - prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico dì malattia - non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore - pur presente in casa - che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore (cfr. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994 n. 2816; 14 maggio 1997 n. 4216, Cass. 22 maggio 1999, n. 5000).

 

Cassazione, sentenza n. 19668 del 22/07/2019

 

Ransomware, due aziende su tre sono colpite dal malware che prende i dati in ostaggio. Colpita anche Coca-Cola con richiesta di maxi riscatto

 

Il 66% delle aziende sono state colpite da un attacco ransomware nell'ultimo anno. Lo evidenzia il nuovo rapporto “State of Ransomware 2022” realizzato a cura di Sophos. Quintuplicato rispetto allo scorso anno il riscatto medio pagato per recuperare i dati, che si attesta sui 812.360 dollari, e il 46% delle aziende i cui dati sono stati criptati a seguito dell’attacco ha deciso di pagare il riscatto.

 

 

 

Il Rapporto globale nella sicurezza informatica, analizza l’impatto che il ransomware ha avuto su 5.600 aziende in 31 paesi nel mondo, Italia compresa.

 

Nel nostro Paese, il 61% del campione di aziende prese in esame nel rapporto è stato colpito da ransomware nell’ultimo anno mentre il 27% si aspetta di essere colpito in futuro. Delle aziende italiane colpite da ransomware, il 63% ha subìto la crittografia dei file, mentre il 26% è riuscito a bloccare l’attacco prima che i dati venissero criptati.

 

Il 43% ha pagato il riscatto e ha recuperato i propri dati, mentre il 78% dichiara di essere riuscito a recuperare i dati grazie al proprio backup. Tra le aziende italiane che hanno pagato il riscatto, il 24% ha recuperato circa la metà dei propri dati e solo il 3% è riuscito a recuperare la totalità dei dati sottratti dai cybercriminali.

 

L’entità del riscatto pagato si attesta nella maggior parte dei casi (37% del campione) tra i 100.000 e i 249.999 dollari.

 

Il 55% delle aziende italiane colpite ha dichiarato che l’impatto sulla propria operatività di business è stato molto alto e che il recovery time è stato fino a 1 settimana per il 36%, fino a un mese per il 34%, mentre solo l’11% del campione ha ripristinato la normalità in meno di un giorno.

 

Per quanto riguarda l’assicurazione dai rischi cyber, il 47% del campione dichiara che la propria polizza copre anche i danni causati da un attacco ransomware, il 7% pur avendo un’assicurazione cyber non ha copertura per questa tipologia di attacco e il 5% del campione dichiara che la propria azienda non ha un’assicurazione contro i rischi cyber.

 

 

 

Nello scenario internazionale, proprio nelle ultime ore è stata data notizia che il gruppo ransomware Stormous ha annunciato di aver colpito la multinazionale Coca-Cola Company, e di aver esfiltrato oltre 160 GB di dati. Il riscatto richiesto all’azienda sarebbe di oltre 64 milioni di dollari statunitensi, ovvero 1,6467000 Bitcoin. A quanto pare, il gruppo di criminali informatici avrebbe anche lanciato prima un sondaggio sul proprio gruppo Telegram chiedendo agli utenti di scegliere il prossimo bersaglio, e la Coca-Cola Company avrebbe “vinto” con oltre il 70% di preferenze.

 

Consapevole degli enormi rischi che comporta per le imprese che vengono colpite da questo pericoloso tipo di malware, il Gruppo di Lavoro per la sicurezza delle informazioni che opera in seno agli organi competenti, a nelle scorse settimane ha realizzato una specifica infografica a scopo informativo e divulgativo, che è liberamente scaricabile dal sito dell’associazione, e che ha già registrato oltre 1.000 download.

 

 

 

 

 

In caso di violazione dei segreti aziendali da parte di ex dipendenti, il Tribunale di Bologna ha confermato la liceità delle aziende di avvalersi di un informatico forense per reperire prove utili in sede di giudizio

 

I segreti aziendali fanno parte del patrimonio di un'azienda ed oggi più che mai è fondamentale tutelarli perché non finiscano in mani sbagliate (come ad esempio hacker) o alla concorrenza. Molto spesso però, chi dovrebbe salvaguardarne la segretezza finisce con l'usufruirne per un proprio tornaconto: si tratta di dipendenti infedeli o ex dipendenti che violano il patto di non concorrenza. Il caso in questione riguarda un'azienda, titolare di brevetti nel campo degli avvitatori automatici, che si è vista soffiare informazioni sensibili e riservate da tre ex dipendenti dimessisi volontariamente nel settembre del 2017. A seguito delle dimissioni, i tre avevano avviato una collaborazione con un gruppo costituito da tre società operanti anch'esse nel settore degli avvitatori automatici, perciò concorrenti.

 

Tuttavia, la "vecchia" azienda era venuta a sapere che una delle tre società del gruppo aveva formulato "ordinativi di componenti con caratteristiche pressoché identiche ai propri". Una volta verificato il coinvolgimento degli ex dipendenti con le suddette società, ha incaricato un'agenzia di consulenza informatica allo scopo di analizzare i computer aziendali utilizzati precedentemente dagli ex dipendenti. Dalle indagini è emerso che i tre avevano prelevato e copiato, anche nel periodo antecedente alle rispettive dimissioni, informazioni aziendali riservate, sia di natura commerciale che tecnica.

 

Il caso è finito al Tribunale Ordinario di Bologna. I tre ex dipendenti hanno presentato ricorso, lamentando la mancata legittimità da parte della "vecchia" azienda di avvalersi di un'agenzia di consulenza informatica, in barba ai diritti sulla privacy. Il Tribunale di Bologna, con l'ordinanza del 12 novembre 2018, ha respinto il ricorso avvallando l'attività svolta dagli informatici forensi incaricati dall' ex azienda, "in quanto le modalità di acquisizione dei dati non hanno comportato l'accesso ad account privati di posta degli ex dipendenti e i dati sono stati rinvenuti all'interno dell'hardware della ricorrente, poiché trasfusi dall'interessato sul pc aziendale tramite backup dell'Iphone". La sentenza ha confermato quindi la possibilità da parte delle aziende, soggette ad abuso o furto dei segreti aziendali, di avvalersi di una società di consulenza informatica per reperire prove che verifichino la colpevolezza o meno di dipendenti infedeli o ex dipendenti.

 

 

 

Cassazione: è lecito registrare una conversazione di nascosto col cellulare 

La registrazione può legittimamente essere acquisita al processo senza l'autorizzazione del GIP e rappresenta una forma di autotutela

Fonte: Cassazione: è lecito registrare una conversazione di nascosto col cellulare

SENTENZA: 

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 2 marzo – 10 giugno 2016, n. 24288 Presidente Gentile – Relatore Verga Motivi della decisione Con sentenza in data 16 gennaio 2014 la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale che in data 24 giugno 2010 aveva condannato S.C. per concorso in estorsione in danno di P.E., dichiarava la nullità della sentenza limitatamente alla condotta posta in essere dall'imputata nel luglio 2008 disponendo che dei presente provvedimento fosse data notizia al Pubblico Ministero in sede per le sue determinazioni, confermava nel resto la sentenza impugnata. In sede di appello la S. aveva eccepita la nullità della sentenza per avere il primo giudice pronunciato condanna anche in relazione all'episodio estorsivo commesso nel luglio 2008 nonostante nel capo di imputazione fossero contestati soli fatti di estorsione commessi nel mese di agosto e settembre del 2008. Ricorre per cassazione imputata deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. violazione di legge in relazione all'articolo 522 codice procedura penale in relazione all'articolo 604 comma uno codice di procedura penale. Rileva la ricorrente che la sentenza impugnata ha dichiarato la nullità della sentenza di primo grado limitatamente alla condotta posta in essere nel luglio 2008 disponendo che dei provvedimento fosse data notizia al PM in sede per le sue determinazioni e confermando le statuizione inerenti la pena inflitta in primo grado. Secondo la ricorrente tale modus operandi si palesa illegittimo per violazione dell'articolo 522 codice di procedura penale. Ritiene non condivisibile l'affermazione secondo la quale il capo di imputazione eliminato costituirebbe un'ipotesi di reato concorrente, costituendo al più un altro fatto di reato consumato nel luglio 2008, fatto ben diverso rispetto a quello delle presunte estorsioni poste in essere in agosto e settembre 2008. Si tratterebbe perciò non di reato concorrente, ma di altro fatto di reato che secondo la disposizione dell'articolo 604 comma uno codice procedura penale dovrebbe comportare la nullità dell'intera sentenza. Gli atti andavano trasmessi non al pubblico ministero, ma al giudice di primo grado. Si sarebbe così anche evitato di legittimare il giudice di secondo grado ad erogare una sanzione che non è di sua competenza. 2. violazione di legge in relazione alle dichiarazioni rese dalla persona offesa all'udienza dei 7 maggio 2009. Contesta il giudizio di credibilità della parte offesa rilevando che la sentenza di secondo grado ha fatto proprie le argomentazioni della sentenza di primo grado che però aveva ritenuto le dichiarazioni della parte offesa imprecise, disordinate cronologicamente e non aveva escluso che nella vicenda si potessero ravvisare profili di risentimento personale. Evidenzia che l'episodio dell'agosto 2008, si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni della parte offesa; 3. violazione di legge in relazione all'articolo 271 codice di procedura penale in riferimento all'utilizzo della registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti ad opera della parte offesa su sollecitazione dei carabinieri che, in quel contesto procedettero all'arresto della donna. Lamenta la mancanza di provvedimento autoritativo e sostiene che la dedotta inutilizzabilità coinvolge i risultati captativi che riscontrerebbero le dichiarazioni della persona offesa 4. violazione di legge in relazione alla determinazione dei trattamento sanzionatorio. Lamenta la mancata riduzione della pena per effetto delle concesse attenuanti generiche nel massimo consentito. II primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Correttamente i giudici di appello hanno applicato il terzo comma dell'art. 604 c.p.p. nell'accogliere l'eccezione di nullità della sentenza sollevata dal ricorrente con i motivi di gravame per avere il primo giudice pronunciato condanna anche in relazione all'episodio estorsivo commesso nel luglio 2008, nonostante nel capo di imputazione fossero contestati solo fatti di estorsione commessi nel mese di agosto e settembre del 2008. Del tutto irrilevante è la dedotta questione se trattasi di reato concorrente o fatto nuovo considerato che il terzo comma dell'art. 604 c.p.p. prevede che " quando vi è stata condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo, il giudice di appello dichiara nullo il relativo capo della sentenza ed elimina la pena corrispondente, disponendo che del provvedimento sia data notizia al pubblico ministero per le sue determinazioni", decidendo sul resto . La seconda doglianza è formulata in modo assolutamente generico. Sono manifestamente insussistenti, del resto, i vizi di motivazione pur genericamente denunciati, perché la Corte territoriale ha compiutamente esaminato le doglianze difensive ed ha dato conto del proprio convincimento sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, esaurientemente argomentando circa la pronuncia di responsabilità. Nell'esame operato dai giudici del merito le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nella valutazione dell'attendibilità della persona offesa le cui dichiarazioni risultano confermate da ulteriori risultanze probatorie (pag. 3 sentenza impugnata) Il terzo motivo di ricorso è infondato. Deve premettersi che la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le registrazioni di conversazioni tra presenti, compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, non necessitano dell'autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell'art. 267 c.p.p., in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico, ma si risolvono in una particolare forma di documentazione, che non è sottoposta alle limitazioni ed alle formalità proprie delle intercettazioni. Al riguardo le Sezioni Unite hanno evidenziato che, in caso di registrazione di un colloquio ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi, difettano la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del captante. L'acquisizione al processo della registrazione dei colloquio può legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1, che qualifica documento tutto ciò che rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo; il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica dei colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con l'effetto che una simile pratica finisce col ricevere una legittimazione costituzionale" (Cass. Sez. Un. 28-5-2003 n. 36747). Diversa è l'ipotesi di registrazione eseguita da un privato, su indicazione della polizia giudiziaria ed avvalendosi dì strumenti da questa predisposti. Dette registrazioni secondo la giurisprudenza di questa Corte ( N. 23742 del 2010 Rv. 247384, N. 42939 dei 2012 Rv. 253819 N. 7035 del 2014 Rv. 258551), alla quale il collegio aderisce, essendo effettuate col pieno consenso di uno dei partecipi alla conversazione, implicano un minor grado di intrusione nella sfera privata; sicché, ai fini della tutela dell'art. 15 Cost., è sufficiente un livello di garanzia minore, rappresentato da un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, che può essere costituito anche da un decreto del pubblico ministero. Tale provvedimento, infatti, rappresenta il "livello minimo di garanzie" richiamato in varie pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del 1998) e al quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto riferimento, in mancanza di una specifica normativa, sia in materia di acquisizione dei tabulati contenenti i dati identificativi delle comunicazioni telefoniche (Sez. Un. 23-2-2000 n. 6), sia in tema di videoriprese eseguite in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono (Cass. Sez. Un. 28-3-2006 n. 26795). Nel caso di specie,come indicato nella sentenza impugnata e non disatteso in fatto dal ricorrente che si limita a ventilare la verosimiglianza di un accordo con le forse dell'ordine, la registrazione è stata effettuata dal P., su sua iniziativa e senza l'ausilio di strumentazione fornita dalla polizia giudiziaria, correttamente pertanto l'acquisizione al processo della registrazione del colloquio è avvenuta attraverso il meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1. Fondata è la doglianza in punto pena considerato che non è stato calcolata correttamente la diminuzione della pena per la concessione delle circostanze attenuanti generiche indicata nella massima misura consentita, ma erroneamente conteggiata in misura superiore . La sentenza va pertanto annullata senza rinvio limitatamente alla misura della pena che deve essere rideterminata in anni 3 e mesi 10 di reti. ed € 380,00 di multa. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena che ridetermina in anni 3 mesi 10 di reti. ed €. 380,00 di multa; rigetta nel resto il ricorso.     

  

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